Vino: ha ancora un senso discutere di limpidezza?
Qualche anno è passato e, tanta, tantissima acqua è scorsa sotto i ponti, ma ho indelebile il ricordo delle mie partecipazioni al tavolo di degustazione durante il concorso per l’assegnazione della “Duja d’Or” ad Asti; naturalmente sotto l’ala protettrice del mio Grande Maestro Enotecnico Enrico Cernuschi. Strumenti utilizzati, come da sempre, occhio, naso e bocca, ai quali tutto il panel, costituito dagli Assaggiatori e Maestri Assaggiatori dell’O.N.A.V,(in guisa di cani da tartufo), chiaramente tutti già avvezzi all’uso degli stessi dai molti anni di faticosi assaggi. Ah…l’esperienza…quale sofferenza! Fatidico il momento in cui: ne prima, ne dopo, si andava a valutare attentamente, e, sottolineo attentamente, la limpidezza del vino: la scala, riportata nella scheda di valutazione, passava dal valore otto, eccellente, sino allo zero, negativo, e, dopo l’analisi e le doverose considerazioni del caso, se ne dava il susseguente resoconto descrittivo: il vino si poteva allora presentare, brillante, cristallino, trasparente, limpido, velato e dulcis in fundo…torbido. Naturalmente, il valore intrinseco del vino in assaggio, andava scemando quanto più la limpidezza diminuiva, sino, nei casi più sciagurati, dove era in uso arrendersi all’evidenza dei fatti ed interrompere così anzitempo la degustazione. Principio generale adottato all’epoca era il seguente: un vino limpido poteva, ripeto poteva, e di nuovo sottolineo, poteva, considerarsi “sano”, sino a prova contraria, un vino che presentava viceversa “rottura della limpidezza”, comprovava certamente un problema e quindi difettoso. Qualunque sia stato il difetto, rimaneva difficile il dirsi ad occhio, anche se, nonostante qualche difficoltà, fortunatamente, non proprio del tutto misterioso; per il buon conoscitore del prodotto vino, il malefico lo si poteva ricercare in ambiti ben precisi: nel biologico, ad opera dei microorganismi i più disparati, in quello chimico- fisico, le cosiddette “casses”, ma anche nell’assenza dei trattamenti di rifinitura, quali la chiarificazione e la filtrazione. Sta di fatto che, un vino velato o ancor peggio torbido veniva declassato a priori. Dare importanza all’esame visivo resta dunque capitale: si vedono troppi “sommeliers della domenica”, che, appena versato loro il vino, lo degnano al più di un’occhiatina fugace e immantinente iniziano il gioco di polso, il roteare il bicchiere, come fosse una giostra, per poi affondarci a capofitto la canappia alla ricerca degli aromi più improbabili: un comportamento standard, comico quanto meschino. E ad oggi come siamo messi? È da tempo che le mie parole, le più assennate, sembrano aver perso il loro significato più profondo, si direbbe ormai inutilmente desuete: il vino percorre l’oscuro cammino del suo tempo peggiore! Ormai ci siamo assuefatti ai dogmi delle nuove generazioni di “vignaioli” o reputati tali: il vino torbido o velato o addirittura “col fondo”, è, per alcuni, sinonimo di genuinità, di assenza di chimismo, e di qualsivoglia manipolazione, la “naturalità” assoluta; principi sui quali ha messo radici la nuova fede. Per i novelli adepti del culto solo questi sono “vini buoni”, “vini veri”, e, tutto il resto…feccia. E pensare che una volta si diceva: “questo è vino talmente sporco non merita nemmeno la dignità del bicchiere”! Il mondo è sicuramente cambiato, forse ci siamo evoluti, forse ci troviamo ancora immersi nel più buio Medioevo, tuttavia, vi invito ancora una volta di più a riflettere senza alcun pregiudizio su quanto avete letto. Il vino è morto…viva il vino!